Violare la Legge nell'Antica Roma: Gli Spettacoli Pubblici di Morti Atroci
La pena di morte e le forme di esecuzione più crudeli e spettacolarizzate dell'antica Roma, i supplizi pubblici e le torture
10 Settembre 2024
Roma SegretaA differente colpa differente pena mortale: nella Roma Antica si condanna così
La pena di morte nell’antica Roma si lega alle sue leggi fin dalla fondazione della città e i romani pongono una linea netta tra il morire da cittadino ed il morire da straniero.
Sostanzialmente, la pena di morte nell’antica Roma viene applicata quando qualcuno vuole sovvertire l’ordine della società e dello Stato: per esempio, un delitto come il parricidio non era visto male in quanto “assassinio di un affetto”, ma perché stravolge la gerarchia naturale della famiglia.
Già nelle leggi delle XII tavole, emanate dopo la instaurazione della Repubblica avvenuta nel VI sec. a.c., questo fatto viene sottolineato e per tutta la storia romana i cittadini dell’Urbe godettero di diritti unici anche in relazione al modo di morire. Similmente ai munera, parola latina per eventi spettacolari, in un primo momento la pena di morte era legata ad aspetti rituali e mitici della città. Ad esempio almeno fino al I sec. d.C., il lancio dalla rupe Tarpea era la condanna per i traditori e i falsi testimoni mentre la sepoltura da vive spettava alle vestali che violavano il voto di castità. Invece il già citato parricidio era punito con la poena cullei che consisteva nel “disumanizzare” il condannato vestendolo da animale, frustarlo e metterlo in un sacco con animali come cani, galli, vipere e (raramente) scimmie prima di lasciarlo rotolare giù dalla cima di un pendio.
Ai criminali della peggior specie era riservata la crocifissione: nota fu la lunghissima fila di schiavi morti in questo modo in seguito alla rivolta di Spartaco (73 – 71 a.C.) che doveva servire da monito per eventuali e future ribellioni.
Nel periodo imperiale, appena prima della costruzione del Colosseo, sappiamo che Nerone ospitò nei suoi giardini una serie di esecuzioni pubbliche e questa volta con un certo intento di spettacolo. In questo caso, racconta Tacito, l’imperatore aveva bisogno di contrastare la tesi secondo la quale era stato lui ad appiccare il famoso incendio di Roma del 64 d.C., dando quindi la colpa ai cristiani. I condannati alla villa di Nerone erano “coperti di pelli di animali e fatti sbranare dai cani” oppure “crocifissi o arsi vivi”.
Qualcosa di simile avvenne con le venationes, le cacce di gladiatori alle bestie feroci, volute dal generale Pompeo del 55 a.C., quando il pubblico provò pietà per alcuni elefanti, che sembravano chiedere misericordia, ma anche i cristiani “suscitarono compassione…perché venivano sacrificati per soddisfare la crudeltà di un solo uomo e non per il rispetto ed il bene comune…” .
Lo spettacolo della pena di morte nel Colosseo nella Roma Antica
Con la costruzione del Colosseo questi supplizi vennero non più solo organizzati insieme ai giochi, ma molto spesso anche spettacolarizzati. I condannati a morte, rei di crimini gravi contro lo Stato, venivano chiamati noxii.
Le esecuzioni al Colosseo avvenivano all’ora di pranzo circa, dopo le venationes e prima dei munera: i principali metodi per giustiziare i malcapitati erano la damnatio ad feras, la crocifissione e la vivi crematio.
La damnatio ad feras era forse la morte più orribile anche per la vista del pubblico e ce lo dice Marziale: “ […]così offerse le viscere a un orso della Caledonia Laureolo che pendeva da una vera croce. Vivevano gli arti straziati e stillanti di sangue, ma in tutto il suo corpo non c’era più un corpo.” Marziale parla di Laureolo, un criminale condannato alla damnatio ad feras per aver “tagliato la gola del padre” e “del padrone” e “spogliato nella sua follia i templi dell’oro segreto” e “aveva accostato a te, Roma, la fiaccola orrenda”, cioè per non farsi mancare nulla, aveva appiccato un incendio. Ancora sulla damnatio ad bestias, Petronio: “Oggi faranno entrare nell’arena anche quello schiavo che era il tesoriere di fiducia di Glicone! Che figura!... Glicone lo ha sorpreso a fare l’amore con la moglie e per questo lo ha fatto subito condannare a morire ucciso dalle bestie…io sono sicuro che il pubblico si dividerà tra quelli che fanno il tifo per l’amante e per quelli che, come il marito geloso, lo vogliono morto in maniera orribile!”.
Era preferita alla damnatio ad bestias la vivi crematio, e i suoi condannati erano detti pyrricharii: questi erano dei condannati vestiti con abiti sfarzosi imbevuti di liquido infiammabile e successivamente rincorsi da addetti con torce in un’arena piena di piante verdeggianti; ci si può immaginare il risultato. Una variante cheap di questa forma di supplizio era il più semplice rogo sul palo.
Per scoprire dove e quando nel Colosseo queste pene capitali venivano eseguite potete affidarvi al nostro tour audio guidato del Colosseo
La crocifissione nell'Antica Roma: la pena più crudele
Infine la crocifissione, che non avveniva nel Colosseo, fu esclusa dai ludi a causa della eccessiva durata della pena: definita da Cicerone “crudelissimum taeterrimumque supplicium”» ovvero “il supplizio più crudele e più tetro”, la crocifissione senza interventi da parte di addetti poteva durare alcune ore come alcuni giorni. A voler essere cattivi era possibile aggiungere un “gradino” di legno per i piedi detto pegma, che dando un appoggio al condannato, avrebbe allungato il tempo della sua pena; al contrario, per fare un “favore” e velocizzare la pena, si rompevano le gambe del condannato.
Le esecuzioni pubbliche nell’antica Roma erano utilizzate quindi con un duplice scopo: da un lato quello di accontentare la sete di giustizia nei confronti dei criminali, dall’altro di mandare messaggi a tutti gli altri malviventi per disincentivare le loro malefatte.
Sebbene alcune personalità prendessero distanza da questo tipo di violenze, perlomeno dal farne uno show, queste esecuzioni ci danno una visione sul valore della vita e della persona nell’antica Roma, lontana dall’idea di uguaglianza universale ed anzi legata innanzitutto all’appartenenza alla cittadinanza romana, nonché alla gerarchia sociale interna alla società dell’epoca.
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